Il nuovo conflitto tra Israele e Hamas ha determinato uno sconvolgimento degli equilibri geopolitici in Medio Oriente. Tutti gli attori regionali, statali e non statali, hanno assunto diversi approcci, cercando di mediare tra i propri interessi primari, le priorità interne e la gestione del nuovo focolaio di conflittualità ad alta intensità.
Vediamo quindi come si stanno muovendo alcuni dei "pesi massimi" della penisola arabica.
Tra cautela e attivismo diplomatico
Per molti attori regionali, il conflitto scoppiato nell’autunno del 2023 ha comportato la necessità di ricalibrare la propria politica estera. I paesi arabi del Golfo hanno dovuto adeguarsi alla riaccensione di diversi focolai di tensione: dalla pianura mesopotamica allo stretto di Bab el-Mandeb. Il conflitto tra Hamas e Israele ha direttamente coinvolto anche paesi limitrofi e prossimi come Libano, Siria, Iraq e lo Yemen.
Le monarchie del Golfo, pur avendo un rigido e solido controllo dell’informazione e della produzione culturale, devono mantenere un atteggiamento cauto - coscienti delle simpatie filo-palestinesi delle proprie popolazioni. Per queste ragioni, pur condannando la modalità di condotta della guerra di Israele, paesi come gli Emirati Arabi Uniti non hanno rotto le proprie relazioni con lo stato ebraico, mentre paesi come il Qatar non hanno espresso una posizione massimalista, preferendo agire da mediatori. In una posizione mediana si trova invece il gigante saudita, in bilico tra la volontà di trovare un modus vivendi con Israele e la volontà di preservare lo status quo di distensione con la repubblica islamica iraniana, sostenitrice di Hamas, Hezbollah e diverse milizie sciite nel Siraq.
I paesi arabi del Golfo desiderano mantenere una relazione privilegiata con Washington ma contemporaneamente non disdegnano nuove collaborazioni con Pechino e la Russia. Il mancato sostegno statunitense dopo gli attacchi alle raffinerie di Saudi Armaco ad Abqayq e Khurais nel 2019 e il successivo ritiro militare dall’Afghanistan hanno impensierito Riad e Abu Dhabi, seminando dubbi riguardo la volontà di Washington di agire da reali security provider nella regione.
Per queste ragioni, le monarchie del Golfo hanno cominciato un percorso di distensione con la repubblica islamica iraniana, grazie alla mediazione di Pechino. Ma i recenti attacchi diretti condotti da Teheran contro Israele, che hanno visto coinvolto lo spazio aereo iracheno e siriano, hanno fomentato le ansie nelle capitali arabe, che considerano quindi la potenza persiana un attore revisionista che vuole mettere a rischio i precari equilibri regionali. Parallelamente, pur non avendo disconosciuto gli Accordi di Abramo, la relazione con Israele diventa a sua volta più controversa e complicata da mantenere.
Il Qatar è in prima linea con il proprio lavoro di mediazione diplomatica tra la leadership di Hamas e quella israeliana, ma inizia a considerare anche l’eventualità di espellere i capi dell’organizzazione terroristica qualora il costo politico del loro asilo diventi troppo alto. Riad e Washington lavorano a un ampio e approfondito accordo di difesa militare, ma entrambi gli establishment dei due paesi non riescono ancora a trovare una sintesi che possa efficacemente collegare questo accordo ad uno parallelo di riconoscimento tra la monarchia saudita e lo stato ebraico. Inoltre, l’Arabia Saudita deve fare i conti con il fallimento della propria strategia di appeasement nei confronti del movimento zaydita degli Houthi.
Nonostante il congelamento del conflitto interno, il gruppo sciita, sostenuto dall’Iran, non sembra intenzionato a raggiungere un accordo di pace in buona fede con il governo legittimo riconosciuto internazionalmente, che controlla solo una frazione mediocre del territorio nazionale. La dirigenza degli Houthi potrebbe galvanizzarsi per i risultati ottenuti nella propria campagna di disarticolazione del commercio globale attraverso il Mar Rosso e alzare la posta in gioco a livello interno, con mire egemoniche sul resto del territorio yemenita. Riad ha anche limitato la possibilità dell’alleato statunitense di lanciare attacchi dal proprio territorio, onde evitare rappresaglie dirette da parte del gruppo terroristico yemenita.
Considerando queste variabili interconnesse, Washington prova a incentivare una maggiore integrazioni militare tra i propri alleati, per permettere una più efficace difesa antimissilistica congiunta. Inoltre, mira a sostenere lo sviluppo di moderne marine per la prevenzione del contrabbando militare dall’Iran allo Yemen, per mettere quindi in sicurezza le rotte marittime intorno alla penisola arabica. Le reciproche diffidenze e le divergenti agende di politica estera sono ancora un ostacolo alla piena realizzazione di questo ampio progetto geostrategico, nonostante l’incombenza della minaccia iraniana.
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L'Autore
Michele Magistretti
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