L’Arte della Controinsorgenza: il volto dell’insurrezione nelle sfide regionali

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  31 August 2023
  27 minutes, 55 seconds

A cura di

Domenico Molino - Senior Researcher, Difesa e Sicurezza

Abstract

Il recente colpo di stato in Niger testimonia come le lotte per il potere, unite alla strumentalizzazione del senso di insicurezza, contribuiscano a creare opportunità di intervento per attori, quali il Cremlino, che ambiscono a plasmare il futuro politico della regione. Sin da subito, la vicenda si presta alla riflessione circa il rapporto che si instaura tra attori esterni, governi locali e gruppi insorgenti. Inoltre, la strategia di counter-insurgency e counter-terrorism sviluppata da Parigi in Mali e Niger presenta analogie con alcuni degli errori commessi da Washington in Iraq e Afghanistan. Soprattutto in Mali, il ruolo delle forze locali era stato minimizzato privilegiando l’accrescimento delle capacità delle forze esterne di sconfiggere direttamente insorti e terroristi. Pertanto, nonostante le operazioni su vasta scala in Ucraina impongano il preponderante ritorno dell’analisi militare convenzionale, è necessario non disperdere le lezioni maturate in decenni di operazioni di counter-insurgency e di stabilizzazione. Da un lato, dall’affinamento di questa strategia è possibile osservare il modo in cui le organizzazioni militari apprendono, riadattano capacità e riconfigurano le proprie strutture organizzative. Dall’altro, l’evoluzione della dottrina conferma la centralità degli approcci ‘whole of government’ e inter-agenzia. Ciò si rivela indispensabile all’interno di un ambiente strategico caratterizzato da una marcata competizione di lungo termine tra Nazioni.

Il periodo dell’‘atrofia strategica’

Nel Summary of National Defence Strategy del 2018 il Dipartimento della Difesa USA sottolineava come la propria missione fosse quella di fornire forze militari credibili per garantire ai vertici politici e diplomatici della Nazione di poter continuare a negoziare da una posizione di forza. Il tenore della pubblicazione testimonia una diversa prospettiva rispetto ai documenti strategici degli anni ’90 e dei primi anni 2000.

Sebbene alla fine della guerra fredda Washington aveva mostrato al mondo un’imparagonabile forza militare, economica e diplomatica, questa non era riuscita a garantire il consolidamento globale della propria influenza politica. La conduzione della Global War on Terrorism aveva portato gli USA ad intervenire militarmente in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Tuttavia, soprattutto l’operazione Iraqi Freedom era stata preceduta e contornata da considerazioni contrastanti in seno alla comunità internazionale. Difatti, oltre a Cina e Russia anche la Francia, attraverso le parole del proprio ministro degli esteri Dominique de Villepin[1], aveva minacciato il ricorso al diritto di veto per bloccare una risoluzione di guerra (Le Monde, 2003). Inoltre, si veniva a creare un asse franco-tedesco contrario al conflitto (The Guardian, 2003).

In seguito all’inizio del conflitto, le difficoltà nello scindere i profili del terrorismo e dell’insurrezione (Kilcullen, 2009), la drammaticità dei risultati delle prime fasi delle operazioni di counter-insurgency e l’impatto di azioni terroristiche nel cuore dell’Europa alimentarono il dissenso interno e internazionale sul conflitto. La posizione statunitense ne usciva indebolita. La lunga e complessa insorgenza irachena aveva contribuito ad erodere il vantaggio posseduto dagli USA rispetto ad attori globali e regionali con cui Washington era, de facto, entrata in ottica di competizione; Iran in primis.

È pur vero che ciò che gli Stati Uniti si trovarono ad affrontare rappresentava un qualcosa di diverso rispetto ad una tradizionale forma di insorgenza. Chi scrive considera le decisioni che contornano la guerra in Iraq del 2003 come il primo vero punto di rottura nelle relazioni internazionali del post-guerra fredda[2]. Il conflitto, non ancora concluso, può essere suddiviso in tre periodi. Il primo è connesso alle operazioni militari su vasta scala tra il marzo ed il maggio 2003. Il secondo inizia dal Coalition Provisional Authority Order 2 del 23 maggio 2003. Il terzo trova origine dal ritiro, nel dicembre del 2011, delle fore armate statunitensi dal Paese.

La data del 23 maggio 2003 rappresenta un punto cruciale nella storia dell’Iraq contemporaneo. Da questa data, un ambiente fino a quel momento minimamente influenzato dall’organizzazione terroristica al-Qa’ida, raggiungeva una condizione di instabilità tale da anticipare il terreno tanto alle forme di insorgenza quanto alla penetrazione di attori stranieri come la stessa organizzazione terroristica. Come vedremo nel corso dell’analisi, lo stability gap, aumentato dalla decisione di smantellare le forze di sicurezza irachene, alimentava la fase di preparazione delle insorgenze. Tale fase in dottrina prende il nome di pre-insorgenza.

È tuttavia fondamentale sottolineare come la costola irachena di al Qa’ida -al Qa’ida in Iraq (AQI)- era stata fondata nell'ottobre 2004 da un gruppo terroristico transnazionale creato guidato dal giordano Abu Musab al-Zarqawi. Il processo originale di formazione del gruppo, Bayat al Imam, era iniziato in Giordania agli inizi degli anni ‘90. Nel 1999 si associava per la prima volta agli alti dirigenti di al Qa’ida combattendo al suo fianco durante gli attacchi statunitensi in Afghanistan nel 2001. Poco dopo, il gruppo si trasferì in Iraq in previsione dell’invasione statunitense (Nelson, Sanderson, 2011). Dal 2003 al 2007, il gruppo ha galvanizzato l'insurrezione irachena fino a quando le sue tattiche brutali e divisive di alto profilo unite al cambio di strategia di counter-insurgency e counter-terrorism (Kilcullen, 2009) ne aveva minato la leadership ed il sostegno tra la popolazione.

In ragione dei punti sopra esposti, il conflitto iracheno può essere analizzato come il primo conflitto ibrido dell’era contemporanea. Questa forma ibrida, oggi comune agli scenari di Siria, Libia, Somalia e Sahel, necessita della così chiamata ‘counter-insurgency plus’. Con questo termine viene sottolineata l’inadeguatezza delle teorie classiche del contrasto all’insorgenza. Il necessario approccio comprensivo viene così garantito da un insieme agile e dinamico di counter-insurgency, counter-terrorism, border security, nation building e peace operations, il tutto sostenuto da una robusta strategia politica (Kilcullen, 2009). È da queste lezioni apprese che la dottrina USA ha nel tempo posto le basi per l’attuale strategia di competizione con nazione considerate ‘quasi pari’ e ‘potenze regionali’.

Dalla ‘counter-insurgency plus’ alla political warfare

Dal 2018, anche all’interno dei documenti strategici, la Casa Bianca riemergeva da quel periodo di “atrofia” descritto nel paragrafo precedente. Difatti, tanto l’annessione russa della Crimea (2014) quanto le proxy war in Medioriente rendevano evidente la mai cessata competizione di lungo termine tra le Nazioni. Pertanto, per osservare le tendenze di questa rivalità, occorre comprendere:

  • il ruolo rivestito dall’instabilità nelle aree strategiche del globo;
  • l’impatto dell’insorgenza;
  • le prospettive offerte dalle forme, anche finanziarie, di supporto esterno sviluppate da attori statali (tanto nel periodo della pre-insorgenza quanto in quello manifesto[3]);
  • le forme di sponsorizzazione e supporto da parte degli attori non statali;
  • l’attuazione di una strategia di counter-insurgency aderente al contesto.

Una delle principali sfide delle Forze Armate della NATO è oggi rappresentata dall’ottenere “il tradizionale vantaggio nel combattere le guerre convenzionali conservando ciò che si è appreso dalle guerre non convenzionali” (AUSAG, 2008). Se questo appariva vero già nel 2008, i recenti avvenimenti africani, letti in ottica di insieme con l’attuale conflitto in Ucraina, testimoniano come gli stati fragili e le operazioni di counter-insurgency plus continueranno ad essere il terreno principale della competizione tra Nazioni.

Dunque, questa pubblicazione inquadra, in linea di sintesi, gli aspetti culturali, politici e diplomatici che caratterizzano l’insorgenza. Dall’analisi dei requisiti, degli elementi e delle dinamiche, se ne delinea un quadro complesso e non sempre palese. La percezione errata del fenomeno può comportare che il contrasto venga identificato, così come accaduto in alcune fasi delle operazioni in Iraq[4] e Afghanistan[5] nella mera opposizione ad una delle sue declinazioni tattiche; la guerriglia. In questo caso, la strategia diviene ‘nemico centrica’ trascurando quei fondamentali elementi informativi, sociali e culturali che distinguono il nemico dal guerrigliero ‘accidentale’, dal competitore politico e, talvolta, persino dalla popolazione locale.

La storia testimonia gli ampi sforzi di eserciti e governi nelle azioni di controguerriglia e controinsorgenza. Tuttavia, il loro esito è risultato da sempre determinante per soppesare le ambizioni politiche degli Stati. I recenti avvenimenti nigerini testimoniano ancora una volta quanto spesso venga sottostimato il ruolo giocato dai governi locali e dalle forze di sicurezza. Difatti, la maggior parte delle valutazioni sviluppate nel corso delle operazioni di counter-insurgency sembrano ignorare o minimizzare il ruolo delle forze indigene, ‘concentrandosi erroneamente su come migliorare le capacità delle forze esterne per sconfiggere direttamente gli insorti’ (RAND, 2008). Questa problematica, benché da sempre analizzata, sembra venir spesso trascurata.

Proprio a causa del profilo geostrategico di un’insorgenza, è altamente probabile che, da problematica interna ad un’entità politica, lo scontro si tramuti in strumento per la competizione ed il confronto tra Potenze (figura 1). Ciò avviene attraverso la sponsorizzazione e l’ispirazione da parte di attori esterni, tanto non statali quanto statali. Quest’ultima particolarità viene classificata come guerra per ‘procura’.

Figure 1 Struttura dell'Insorgenza e della Controinsorgenza:

Il grafico riealabora la struttura dell’insorgenza elaborata dalla RAND[6] e vi aggiunge i profili della Great Power Competition. In questo contesto, il Political Warfare fa il suo ingresso all’interno di una guerra interna ad un’entità politica.

Lo sfruttamento delle guerre per ‘procura’ si ricollega alla consapevolezza maturata dalla politica USA a partire dal 2018 circa il ritorno alla competizione strategica di lungo termine tra Nazioni. Tuttavia, questo si rispecchia nel concetto di ‘Unrestricted Warfare’, introdotto, a fine degli anni ’90 del secolo scorso, dai colonnelli dell’Esercito di Liberazione Popolare Cinese Qiao Liang e Wang Xiangsui. Tema fondante del documento era la considerazione che il confronto diretto e convenzionale con il ‘sistema dei sistemi’ americano sarebbe risultato folle. Per questo motivo l’unica strategia a disposizione delle Nazioni o degli attori non statali per sconfiggere la superpotenza statunitense era attraverso l’annullamento dello scontro convenzionale teorizzando il ‘principio di addizione’ vale a dire la combinazione, alle tradizionali capacità militari, di azioni economiche, politiche, diplomatiche, cyber, terroristiche e di propaganda. L’efficacia di questo concetto si può riscontrare a partire dal maggio 2003.

È proprio attraverso l’osservazione del più articolato processo di trasformazione del Medioriente che il generale Gerasimov avevano posto l’attenzione dello Stato Maggiore russo sulle dinamichesommerse[7]’ che avevano prodotto ed alimentato le proteste successivamente sfociate in cambi di regime o in ancor più dilanianti conflitti interni. Questi eventi, apparentemente riconnessi alla sfera dell’ordine e della sicurezza pubblica, sembravano indicizzare la possibile natura dei conflitti del XXI secolo. I russi ne facevano conseguire un’attenta valutazione circa l’approccio adattivo all’uso della forza militare[8] (Molino, 2022) individuato tuttavia all’interno di quei contesti già caratterizzati da un violento fermento politico e sociale.

Da quanto esposto si sottolinea il valore di comprendere tanto le forme di insorgenza quanto quelle di contro insorgenza. Entrambe, nella loro complessità, alimentano i profili della così chiamata ‘political warfare’. Con questo termine si definisce “l’impiego di tutti i mezzi a disposizione di una nazione, a parte la guerra, per raggiungere i suoi obiettivi nazionali” (CRS,2023[9]). Dunque, il termine descrive l’uso sincronizzato di qualsiasi aspetto del potere nazionale, tranne la guerra convenzionale aperta, come ad esempio risorse di intelligence, costruzione di alleanze, strumenti finanziari, relazioni diplomatiche, tecnologia e dominio dell’informazione. Tuttavia, secondo alcuni studiosi, essa non rappresenta una mera competizione ma una forma di guerra in sé. Come ogni altro conflitto, il suo obiettivo è quello di imporre la propria volontà sull’avversario per ottenere risultati strategici, conquistare e distruggere la volontà dell’avversario di resistere (CRS,2023).

Bisogni informativi in un ambiente strategico ed operativo complesso.

La complessità delle dinamiche che caratterizzano l’insorgenza rende difficile l’identificazione dei requisiti e degli elementi che ne caratterizzano il volto. Talvolta, una delle sue declinazioni tattiche, la guerriglia, viene scambiata per essere l’insorgenza stessa (Nagl, 2002) condizionandone profondamente le strategie di contrasto.

Fronteggiare azioni di guerriglia e cercare di risolvere i focolai di insorgenza è stata la principale sfida della coalizione guidata dagli Stati Uniti a partire dall’Operazione Enduring Freedom (2001) e dallo scioglimento degli apparati di sicurezza iracheni (2003). Difatti, tanto in Afghanistan quanto in Iraq, Washington era riuscita ad ottenere una schiacciante e rapida vittoria militare. Tuttavia, in entrambi i contesti si era ravvisata la veridicità dell’affermazione di Liddell Hart per cui “ottenere una vittoria militare non è equivalente a ottenere l’obiettivo politico”. Il teorico militare inglese, all’alba dell’era nucleare, osservava l’importanza di comprendere la guerriglia e le forme di sovversione. Considerava essenziali l’assistenza verso gli sforzi di contrasto delle Nazioni alleate focalizzando il proprio studio tanto sugli aspetti tattici quanto sui risvolti politici.

Tuttavia, una non aderente gestione delle fasi iniziali della stabilizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan ha stimolato la critica e l’analisi verso le tattiche impiegate da Washington. Le lezioni apprese portarono le Forze Armate statunitensi, ad osservare come il moderno ambiente operativo si presentasse complesso, multidimensionale e sempre di più combattuto tra la popolazione civile.

I “non combattenti spesso fanno parte del terreno e il loro supporto è la causa principale del successo nei conflitti futuri” (AUSAG, 2008). Già nelle analisi condotte dall’Association of the United States Army emergere come i militari statunitensi e della coalizione nei contesti iracheni e afghani erano chiamati ad operare costantemente tra le persone, a condurre operazioni in un ambiente fortemente caratterizzato dal fattore umano (AUSAG, 2008). Proprio per questo occorreva comprendere come le azioni della componente militare esercitano “un’influenza potentissima sulla popolazione, segnando il successo o il fallimento di un’operazione” (AUSAG, 2008).

A partire dal 2008, la nuova dottrina espressa nel Field Manual 3-0 ‘Operations’ poneva le basi non solo per il successo sul campo di battaglia ma anche per le attività successive, considerate di ‘pace duratura’. L’elemento politico-diplomatico e quello militare si amalgamavano all’interno dell’unica volontà di garantire il successo. La versione del 2008 del FM 3-0, la prima innovazione dottrinale dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ha posto le basi del ‘full-spectrum of operation’. Essa rifletteva le lezioni apprese nei sei anni di operazioni di stabilità e di counter-insurgency cercando di consegnare una strategia nazionale olistica.

Se si torna ad osservare il profilo dell’insorgenza, è riscontrabile come, a partire dall’inizio della Global War on Terrorism, l’interazione tra le organizzazioni terroristiche e i movimenti di insorgenza[10] abbia reso necessario fornire una definirzione puntuale di questi tre fenomeni.

A rafforzare quanto esposto vi è il processo di trasformazione del Medioriente[11] che, unito alla perdurante instabilità del Corno d’Africa e dell’Africa sub-sahariana, contribuisce alla propagazione del terrorismo, allo sviluppo di insurrezioni nonché all’aumento dei traffici illeciti. Questo, richiamando un concetto sviluppato dal consulente David Kilcullen, contribuisce alla così detta ‘globalizzazione dell’insorgenza’.

Inizialmente la sua affermazione rifletteva l’atteggiamento delle organizzazioni terroristiche transnazionali come al-Qa’ida. Oggi, alla luce della riemersa competizione strategica tra Grandi Potenze, essa può essere applicata alle nuove forme ibride di conflitto. Difatti, ambienti quali la Siria, lo Yemen, la Somalia ed il Niger, rappresentano il terreno ideale per l’applicazione delle più varie forme di assistenza securitaria, per lo sviluppo di azioni di counter-insurgency e counter-terrorism nonché per l’inoculazione di operazioni informative. L’assistenza in campo securitario si traduce così in un indispensabile strumento politico di deterrenza ed influenza capace di promuovere gli obiettivi nazionali dell’attore che li sviluppa.

È da questo processo che emergono le ambizioni revisioniste di attori quali il Cremlino (Rand, 2018). Difatti, ciò che continua ad accadere nella fascia centrale dell’Africa, di cui il Niger ne è ultimo esempio, dimostra come le violente lotte per il potere, unite alla strumentalizzazione del forte senso di insicurezza, contribuiscano nel creare opportunità di intervento tese a plasmare il futuro politico regionale.

Guerriglia, insorgenza, e terrorismo.

La dottrina NATO definisce l’insorgenza come le azioni di un gruppo o movimento organizzato, spesso motivato ideologicamente, che cerca di effettuare o impedire il cambiamento politico di un’autorità di governo all’interno di una regione. Si focalizza, inoltre, sul persuadere o costringere la popolazione attraverso l’uso della violenza e della sovversione. Nel Field Manual 3-24 ‘Insurgencies and countering insurgencies’, comune ad Esercito e Marines degli Stati Uniti, è possibile desumere due macro-periodi dell’insorgenza. Il primo viene definito dalla pubblicazione stessa come di ‘preinsurgency’. Il secondo, suddiviso in tre fasi, verrà da noi definito come ‘periodo manifesto dell’insorgenza’ (figura 2).

La pre-insorgenza può durare anche diversi anni e vede l’emersione dei leaders, la costituzione occulta della struttura organizzativa (anche a livello finanziario) e può porre le basi addestrative del personale che sarà interessato in azioni future. Questo periodo può essere interessato dallo svolgimento di azioni politiche (non armate), dall’organizzazione di proteste e dall’avvio di operazioni informative nei confronti di un Target Audience iniziale.

Per quanto attiene alle operazioni informative, generalmente definibili come PSYOPs, è necessario ricordare come esse vengano condotte nel corso di entrambi i periodi dell’insorgenza. Inoltre, risultano vitali per ogni attore, testimoniando come il centro di gravità, tanto dell’insorgenza quanto della controinsorgenza, debba essere identificato nel terreno umano.

Le PSYOPs sono tese ad alterare le fonti informative; “ad interferire sulle organizzazioni che ricevono e processano le informazioni; e, da ultimo, incidendo radicalmente tanto nei tradizionali spazi fisici quanto nel recente dominio virtuale, puntano a condizionare i processi cognitivi degli individui” (NATO Standard, AJP-3.10.1,2014). Queste azioni possono essere condotte a lungo e breve termine, nel corso dell’intero spettro delle operazioni militari, rivolte verso un pubblico specifico (Target Audience) interno o esterno (amico o nemico). Tuttavia, qualunque sia il Target Audience (T.A.), i principi guida rimangono sempre gli stessi e una “PSYOPs di successo risulterà tale solo dopo un’attenta analisi del suo destinatario condotta attraverso un Target Audience Analysis (T.A.A.)” (NATO Standard, AJP-3.10.1,2014).

Nel corso delle tre fasi successive (crescita, maturazione e risoluzione) l’aumento delle violenze e delle azioni di guerriglia rende probabile l’alterazione della percezione dei decisori militari e politici che si trovano a fornire una risposta alle azioni di guerriglia. Come testimoniato nelle fasi iniziali della guerra civile siriana e della crisi libica, la conquista del supporto della popolazione e la sua difesa viene abbandonata trasformando l’eliminazione degli aspetti esteriori e ‘muscolari’ nella priorità. Da un lato la spirale di violenza si acutizza, dall’altro il contrasto aumenta le probabilità di insuccesso. Così facendo, la strategia di contrasto, poggiandosi sulle esperienze dei conflitti convenzionali, appare basata su un approccio ‘diretto’ o ‘nemico centrico’, dove gli sforzi vertono sull’eliminazione del nemico attraverso l’individuazione e la sconfitta della sua sola ala militare. Nel dicembre del 1964, all’indomani dei primi attentati condotti dai Viet Cong, questa stessa alterazione percettiva aveva condizionato la strategia del Generale Westmoreland che, a capo del Military Assistance Command Vietnam (MACV), aveva richiesto al Command del Pacifico il dispiegamento di una divisione dell’Esercito statunitense sostenendo che:

le truppe U.S.A. con la loro energia, mobilità e potenza di fuoco possono ottenere il successo sui Viet Cong. Lo scopo principale dello schieramento aggiuntivo, di seguito raccomandato, è quello di fornire una capacità offensiva, sostanziale e potente sul terreno per convincere i Viet Cong che non possono vincere[12]”.

Sebbene questo stesso ottimismo contagiò anche i vertici militari e politici di Washinton, più avanti, come ha osservato il professor John A. Nagl, anche gli analisti del Pentagono osservarono che:

Il nemico in questa guerra stava estendendo il suo controllo e la sua influenza lentamente e inesorabilmente, ma senza drammi. Ci sono voluti anni per creare l’infrastruttura politica da cui trae la sua forza, e nella maggior parte delle aree, l’espansione del controllo non si è fatta sentire finché non è diventata un fatto compiuto. Solo quando si organizzò in unità delle dimensioni di battaglione e reggimento, il nemico prestò volontariamente alcuni elementi drammatici alla guerra. Ogni volta che queste unità apparivano e ingaggiavano la RVNAF (Forze armate della Repubblica del Vietnam), il governo e i suoi aiutanti statunitensi avevano qualcosa da gestire[13].

L’esempio della manifestazione dell’insorgenza Viet Cong testimonia quanto espresso circa l’importanza di sapere riconoscere sin da subito il fenomeno insorgente. Rispetto a questa visione ‘nemico centrica’, risulta più efficace un approccio ‘indiretto’ teso a separare gli insorti dalla loro vitale fonte di supporto; la popolazione. Uno studio condotta dalla RAND Corporation nel 2008, riguardante l’analisi di 90 insorgenze a partire dal 1945, dimostra la centralità dei governi locali e degli apparati di sicurezza. Lo stesso studio sottolineava come la maggior parte delle valutazioni sulle operazioni di contrasto all’insurrezione tende a ignorare o minimizzare il ruolo delle forze indigene e vocalizzano erroneamente la propria attenzione su come migliorare le capacità delle forze esterne per sconfiggere direttamente gli insorti (RAND,2008). Dunque, se ne tracciavano tre variabili correlate al successo o al fallimento delle operazioni:

  • capacità delle forze di sicurezza locali, in particolare della polizia
  • l’abilità e la legittimità della governance locale
  • l’individuazione delle forme di supporto e sponsorizzazione verso gli insorti da parte degli attori esterni, compresa la santuarizzazione degli ambienti.

Come già espresso nel primo paragrafo della trattazione, le tattiche oggi impiegate dalla galassia che si ricollega all’ISIS e ad Al-Qa’ida rendono ancora più articolata la tematica. Difatti, è nella conduzione di azioni di guerriglia che i movimenti di insorgenza e le organizzazioni terroristiche sfumato i loro confini. Ciò rende ancor più complessa l’elaborazione delle strategie di contrasto rendendo necessario l’approccio della counter-insurgency plus.

Dall’11 settembre 2001 la global war on terrorism aveva portato Washington a entrare marcatamente nelle dinamiche di regimi quali quello dei talebani. I tragici eventi di New York imponevano, nella visione della Casa Bianca, di intervenire li dove “povertà, istituzioni deboli e corruzione rendono gli stati fragili vulnerabili ai network del terrore e ai cartelli della droga” (White House, 2002).

All’alba dell’Amministrazione Obama, gli USA si trovavano nel pieno della guerra che per quasi un decennio avevo condotto contro una vasta rete di violenza e odio (National Security Strategy, 2010). La Casa Bianca poneva così l’accento sull’impegno a interrompere, smantellare e sconfiggere al-Qa’ida e la rete di affiliati soprattutto in quelle realtà, come la Somalia, che a causa della loro instabilità rappresentavano un posto sicuro per la propagazione del terrorismo. Venivano individuati i così chiamati ‘Stati falliti’ i quali ancora oggi rappresentano una concreta minaccia alla sicurezza (Department of State, 2010). Questa asserzione, contenuta nella “Quadrennial Diplomacy and Development Review” redatta dal Dipartimento di Stato degli USA nel 2010, suggerisce rafforzava l’interesse politico di Washington verso gli stati ‘falliti’, fragili o in procinto di fallire.

Lo stesso Dipartimento di Stato statunitense tornò nel 2015 in argomento, osservando come proprio le crisi, quale quella connessa al processo di trasformazione del Medioriente, diventavano ancor più complesse all’interno degli Stati fragili, dove “le sfide di lunga data alla legittimità e all’efficacia indeboliscono le istituzioni statali e il rapporto delle persone con i loro governi” (Department of State, 2015). Dunque, continuava il Dipartimento di Stato, “gli stati fragili non possono far fronte a queste sfide e mancano di resilienza nel momento in cui si sviluppano eventi dirompenti, caratterizzati da violenti conflitti, disastri naturali ed elezioni dall’esito incerto. Quando sorgono conflitti e instabilità in Stati fragili, estremisti e criminali approfittano dei vuoti di sicurezza e della corruzione per creare santuari per attività illecite (Department of State, 2015).

Due amministrazioni con due approcci diversi hanno fatto sì che la strategia di contrasto al terrorismo sviluppata dagli USA si ramificasse nelle vicende regionali alterandone il profilo securitario. Difatti, è probabile che gli ambienti post conflittuali di Afghanistan e Iraq abbiano contribuito al processo di trasformazione del Medioriente esacerbato dalle guerre di Libia, Siria e Yemen. Se alle realtà appena elencate si aggiunge Sahel e Corno d’Africa è facile riscontrare l’interconnessione e la quasi cooperazione tra queste due classi di opponenti ‘non statali’ (Kilcullen, 2009)

È in questo contesto che si è creata tanto commistione quanto antagonismo tra gruppi generalmente classificati terroristici e movimenti di insorgenza. Le vicende di Al-Shabab nel Corno d’Africa testimoniano quanto espresso. Dunque, per comprendere e contrastare l’insorgenza risulta fondamentale l’analisi dell’ambiente in cui questa matura. Al suo interno rientrano le dinamiche del terreno umano (strutture relazioni, elementi culturali, politici e ideologici).

Il Popolo, l’Esercito, il Governo.

In questa prima parte dell’analisi, per necessità di pubblicazione, ci siamo soffermati sulla relazione che intercorre tra la contro insorgenza e quella che viene chiamata la Grand Strategy. Nel corso della storia, eserciti e Nazioni sono stati chiamati a misurarsi con lo spettro della guerriglia. Sul piano tattico ed operativo, la caratteristica principale di queste attività militari risiede nel negare le capacità e i vantaggi di una forza armata convenzionalmente più potente o ritenuta sufficientemente robusta da poter infliggere pesanti perdite alla controparte. Privilegiando attacchi verso avamposti isolati e linee logistiche di rifornimento, lo scontro con le unità principali del nemico viene eluso. Pertanto, nella guerriglia (guerrilla warfare) rientrano attività tanto palesi quanto clandestine impiegate sia come approccio primario[14] che in concerto con la guerra convenzionale[15].

In linea dottrinale, la U.S. Joint Publication 1-02 ‘Dictionary of Military and Associated Terms’ definisce i guerriglieri come “un gruppo irregolare, organizzato su base militare, asservito alla conduzione di azioni all’interno di un territorio controllato dal nemico, ostile, o in cui l’accesso è negato” (JP 3-05[16]). Traspaiono sin da subito due elementi preponderanti; la natura non convenzionale dello scontro (unconventional warfare -UW-) e la centralità del terreno umano.

Sempre la dottrina delle Forze Armate statunitensi indichi i conflitti non convenzionali come “quelle attività condotte per consentire a un movimento di resistenza o insurrezione di costringere, interrompere o rovesciare un governo o un potere occupante operando attraverso o con una forza clandestina, ausiliaria e di guerriglia all’interno di un’area negata” (JP 3-0). La stessa pubblicazione fa rientrare le azioni di guerriglia nelle ‘core activities’ condotte dalle forze speciali. Riferisce, inoltre, come gli Stati Uniti hanno condotto azioni di guerra non convenzionale a sostegno di movimenti insurrezionali e nel tentativo di rovesciare regimi avversari nonché a sostegno di movimenti di resistenza per sconfiggere le potenze occupanti (ad esempio, i Contras nicaraguensi e i Mujahedeen afghani). Questa tipologia di conflitto è stata usato con successo contro i talebani nel corso delle prime fasi dell’operazione ‘Enduring Freedom’ in Afghanistan (JP-3-0). Da ultimo, la UW può essere un modo efficace di esercitare pressioni indirette e dirette su un governo ostile o su una potenza occupante.

In ragione dei punti fin qui esposti, le principali sfide delle Forze Armate della NATO è rappresentata dall’ottenere “il tradizionale vantaggio nel combattere le guerre convenzionali conservando ciò che si è appreso dalle guerre non convenzionali”. I recenti avvenimenti africani, letti in ottica di insieme con l’attuale conflitto in Ucraina, testimoniano come gli stati fragili e le operazioni di counter-insurgency plus continueranno ad essere il terreno principale della competizione tra Nazioni. In conclusione, all’interno della prossima parte dell’analisi saranno analizzati gli aspetti relazionali, culturali e politici dell’insorgenza.

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F

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Bibliografia:

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  • U.S. Joint Publication 3-13, ‘Information Operation’, 2018. (A-1);

U.S. Army Field Manual 3-24 ‘Insurgencies and countering insurgencies’, 2014 (A

[1] Le Figaro, ‘Le discours de Villepin sur l'Irak à l'ONU’, discorso integrale in lingua francese del Ministro degli Affari esteri, Dominique de Villepin, davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York (14 febbraio 2003). https://www.lefigaro.fr/politique/le-scan/2014/04/08/25001-20140408ARTFIG00066-le-discours-de-villepin-sur-l-irak-a-l-onu.php

[2] Per completezza di narrazione è necessario riportare come tanto gli analisti quanto la narrativa di settore discute circa il ruolo svolto dall’operazione NATO ‘Allied Force’ in Kossovo nel degrado delle relazioni tra USA e Federazione Russa. Non si può non considerare come, soprattutto dalla fine degli anni ’90, un alone di diffidenza reciproca ha cominciato a caratterizzare la postura di entrambe le Nazioni. Questo cambiamento è stato cristallizzato per la prima volta all’intero del Decreto del Presidente della Federazione Russa del 10.01.2000 N°24 “Sul concetto di Sicurezza Nazionale della Federazione Russa”. In premessa, il documento riportava come la trasformazione dinamica del sistema delle relazioni internazionali si manifestasse “attraverso i tentativi di creare una struttura delle relazioni internazionali, basata sul predominio dei paesi occidentali sotto la guida degli Stati Uniti e progettata per soluzioni unilaterali, principalmente di potenza militare, verso i problemi chiave della politica globale, aggirando le norme fondamentali del diritto internazionale” (Cremlino, 2000). Questo ha certamente inasprito l’atteggiamento della Russia fronte alla discussione sulle risoluzioni ONU in Iraq.

[3] Si fa riferimento all’applicazione dell’assistenza sotto la veste, politica, militare e securitaria. Essa, prevede la conduzione di attività, tra le quali emergono la Security Force Assistance, la Security Sector Reform, la Stabilization and Reconstruction, la Military Assistance e la Stability Policing. Ognuna di queste attività per essere di successo deve risponde ad un approccio ‘whole of governament’ e inter-agenzia.

[4] Si fa riferimento al periodo che intercorre tra lo scioglimento delle forze armate, di sicurezza e di intelligence irachene (Coalition Provisional Authority Order 2 del 23 maggio 2003) ed il 2007 (modifiche alla strategia di counter-insurgency in Iraq) così come al periodo successivo al ritiro statunitense dal paese (dicembre 2011).

[5] L’Afghanistan con le sue alterne vicende, ramificate in un profondo e complesso percosso storico, ha visto la presenza di gruppi eterogenei che hanno reso oltremodo difficile l’identificazione e la distinzione delle forme di insorgenza. Ai guerriglieri così detti ‘accidentali’ locali si sono affiancati gruppi ed organizzazioni criminali, talebani, l’organizzazione Hezb-i-Islami, la rete Haqqani nonché foreign fighters che hanno costituito la spina dorsale tanto di al-Qa’ida quanto dell’ISIS-K.

[6] Jones, ‘Counterinsurgency in Afghanistan’, RAND Corporation, 2008.

[7] Nel corso della trattazione si vedrà come le ‘dinamiche sommerse’ rientrano in quel periodo definito di ‘pre-insurgency’ individuato all’interno dello U.S.Army Field Manual 3-24 ‘Insurgencies and Countering Insurgency’.

[8] Si rimanda ad una precedente valutazione sulle strategie non lineari ed olistiche impiegate dal Cremlino https://mondointernazionale.org/focus-allegati/unrestricted-warfare-contrastare-lambiguit%C3%A0-del-cremlino-nella-zona-grigia

[9] https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF11127

[10] Tanto le lezioni apprese quanto l’analisi degli ambienti operativi di Iraq e Afghanistan testimonia come l’interconnessione e la cooperazione tra i gruppi terroristici e quelli insorgenti sia stata in parte generata dalla conduzione delle politiche di stabilizzazione post conflittuali.

[11] Il processo di trasformazione del Medioriente è sfociato in una fase ‘manifesta’ a partire dalle azioni di protesta successivamente definite come ‘Primavere Arabe’. Dalla fine del 2010 esse hanno giocato un ruolo fondante tanto nei cambiamenti di regime quanto nelle guerre civili di Siria, Libia e Yemen.

[12] Nagl, ‘Learning to Eat Soup with a Knife: Conteringinsurgency Lessons from Malaya and Vietnam’, The University of Chicago Press, 2002.

[13] Nagl, ‘Learning to Eat Soup with a Knife: Conteringinsurgency Lessons from Malaya and Vietnam’, The University of Chicago Press, 2002.

[14] Ci si definisce alla guerriglia quale approccio primario di un conflitto quando la disparità tra le parti contrapposte è talmente pronunciata da rendere impraticabile lo sviluppo delle principali operazioni su larga scala, tanto offensive quanto difensive, tipiche di un conflitto convenzionale.

[15] Nel corso di un conflitto convenzionale è probabile il ricorso ad azioni di guerriglia. Esse possono essere condotte tanto dal comparto delle Forze Speciali, quanto asservendosi di forze clandestine locali. La storia militare è ricolma di riferimenti e anche nel corso dell’attuale conflitto in Ucraina l’impiego di tali azioni è largamente presente. Tuttavia, a completezza di esposizione, è necessario richiamare altre tipologie di azioni che seguono i principi della guerriglia o più puntualmente dello scontro asimmetrico. È il caso di attività tattiche ed operative quali l’interdizione d’area, condotta da unità regolari dietro le linee nemiche. Con questo termine si fa riferimento a quelle attività militari che hanno lo scopo di ritardare, spezzare e distruggere le forze nemiche o i rifornimenti diretti, o che potrebbero dirigersi, verso le aree principali dello scontro.

[16] Il ‘Dictionary of Military and Associated Terms’ richiama la definizione di guerriglieri che viene fornita dalla U.S. Joint Publication 3-05 ‘Special Operations’. Così facendo, se ne sottolinea tanto il carattere non convenzionale quanto la loro previsione quale ‘core activity’ per il comparto delle forze speciali.

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