"Vittoria Totale": Netanyahu e il consenso in America tra retorica e proteste

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  Lorenzo Graziani
  02 August 2024
  5 minutes, 40 seconds

Lunedì 22 luglio il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è arrivato a Washington per partecipare a diversi incontri con l’alta sfera politica americana, in un contesto particolarmente complesso.

Il momento non è infatti casuale: all’interno del suo paese, Netanyahu si trova a dover affrontare un dissenso importante, sia dall’ambiente militare che da quello civile, direzionato verso il raggiungimento rapido di un cessate il fuoco con Gaza. In aggiunta, la decisione del 19 luglio della Corte Internazionale di Giustizia, che ha decretato l’occupazione israeliana della Cisgiordania come illegale, pone l’opinione pubblica internazionale in una posizione ancor più contrastante, se possibile.

In suolo americano, la situazione politica non è certo di minore complessità: la recente rinuncia di Biden, che ha lasciato spazio all’attuale Vice Presidente Kamala Harris per la presidenziali di questo novembre, presenta a Netanyahu una situazione difficile, dove diventa più che mai essenziale consolidare un forte supporto bipartitico e comprendere quella che sarà la visione della politica estera di Harris.

Atterrato a Washington, le prime ventiquattr'ore del Primo Ministro israeliano sono state però lontane dai più luminosi riflettori: costellate da tanti incontri minori con le famiglie di alcuni degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre, secondo il Times d’Israele Netanyahu ha dichiarato, parlando delle negoziazioni per raggiungere il cessate il fuoco, “fin dall’inizio ho detto che questo sarebbe stato un processo. Sfortunatamente non accadrà tutto in una volta, ci saranno diverse fasi, ma credo che possiamo proporre un accordo e mantenere la pressione che possa portare alla liberazione di tutti”. Si tratta quindi di due visioni ben diverse: quella di Netanyahu, che continua a considerare la resa un “pericolo derivante da tutta l’asse malvagia dell’Iran”; e quella delle famiglie degli ostaggi, desiderose di vedere raggiunto un cessate il fuoco il prima possibile.

La giornata di mercoledì 24 il leader israeliano ha partecipato ad una seduta del Congresso americano, durante il quale il suo discorso si è acceso alle parole “vittoria totale”. “Noi non stiamo solo proteggendo noi stessi” ha dichiarato davanti ai politici americani, “noi stiamo proteggendo voi. […] I nostri nemici sono i vostri nemici, la nostra battaglia è la vostra battaglia, la nostra vittoria sarà la vostra vittoria”.

Le lodi del Primo Ministro israeliano all’aiuto americano hanno però risuonato in un Congresso più vuoto del solito, dato che dozzine di democratici, inclusa la portavoce Nancy Pelosi, hanno deciso di boicottare l’intervento, asserendo a motivazione la situazione umanitaria disastrosa nella Striscia di Gaza. E proprio Pelosi, su X, ha detto la sua riguardo questa scelta: “La presentazione di Benjamin Netanyahu al Congresso di oggi è stata di gran lunga la peggiore presentazione mai fatta da un dignitario estero onorato del privilegio di rivolgersi al Congresso degli Stati Uniti”.

Anche Bernie Sanders, Senatore Democratico che ha a sua volta boicottato l’evento, ha detto la sua, dichiarando: “sarà la prima volta nella storia dell’America che a un criminale di guerra viene dato questo onore”.

E mentre le parole di Netanyahu facevano cadere uno scroscio di applausi dalle panche dei Repubblicani, tra le strade di Washington migliaia di manifestanti hanno fischiato, battuto sui tamburi, sventolato bandiere e gridato cori. I protestanti si sono messi in marcia verso la Union Station, spingendo il cordone dei poliziotti, che armati di spray al peperoncino sono intervenuti arrestandone in gran numero. Arrivati alla Unione Station, monumento storico della capitale, hanno appeso bandiere palestinesi e hanno dato fuoco a una bandiera americana.

Idioti dell’Iran”, le parole usate da Netanyahu per descrivere i detrattori della guerra, “molti protestanti anti-Israele hanno scelto di stare con il male. Molti stanno con Hamas” ha dichiarato.

Anche Kamala Harris ha condannato i protestanti pro-Palestina: “alla Union Station a Washington abbiamo visto atti spregevoli da parte dei protestanti anti-patriottici. Condanno ogni individuo che si associ con la brutale organizzazione terroristica Hamas, che ha giurato di annientare lo stato d’Israele e di uccidere gli ebrei. I graffiti pro-Hamas e la retorica collegata è disgustosa e non lo dobbiamo tollerare nella nostra nazione. Condanno inoltre il rogo della bandiera americana. Quella bandiera è simbolo dei nostri ideali più alti come nazione e rappresenta la promessa degli Stati Uniti d’America. […] Supporto il diritto alla protesta pacifica, ma siamo chiari: l’antisemitismo, l’odio e la violenza di ogni tipo non hanno spazio nella nostra nazione”.

In un clima di forte contrasto, giovedì Netanyahu si è incontrato con l’attuale Presidente americano e l’ha ringraziato “da orgoglioso ebreo sionista a orgoglioso irlandese americano sionista”, per i “50 anni di pubblico servizio e di supporto per lo stato d’Israele”.

Dall’incontro con Biden, il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha fatto trasparire grande ottimismo per il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco, definendoli “più vicini che mai”, anche se ha chiarito che “entrambe le parti devono fare dei compromessi”.

Il meeting con Harris, assente mercoledì al Congresso a causa di impegni personali, è avvenuto in separata sede dopo quello con Joe Biden. Durante quello che, secondo Harris, è stato un “incontro franco e costruttivo” l’attuale Vice Presidente ha pressato Netanyahu per risolvere la questione umanitaria a Gaza: “Israele ha il diritto di difendere sé stesso. Ma come lo fa ha importanza. È ora che questa guerra finisca”. “Ho fatto chiare le mie serie preoccupazioni riguardo la situazione umanitaria” ha dichiarato Harris ai reporter dopo il meeting, definendo il suo impegno a questo proposito “incrollabile”, “non possiamo permetterci di rimanere indifferenti alla sofferenza e io non rimarrò in silenzio”.

Infine, secondo personale richiesta di Netanyahu, venerdì il Primo Ministro israeliano si è incontrato con Donald Trump nel suo residence Mar-a-Lago, il fantasma del “Fuck him” gridato da Trump dopo le scorse presidenziali ancora presente tra i due.

L’incontro, senza grandi sorprese, si è incentrato principalmente sul comportamento “irrispettoso” di Kamala Harris. “Penso che i suoi commenti siano stati irrispettosi” ha detto Trump ad un reporter della CNN, “non sono stati molti carini nei riguardi d’Israele. Sinceramente non so come un ebreo possa votare per lei. […] Non le piacciono gli ebrei. Non le piace Israele. È così, e così rimarrà”.

Anche Netanyahu ha espresso preoccupazione per le parole di Harris, dicendosi spaventato dalla possibilità che queste ultime possano rendere più difficile il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco, ma perplessità sulla nuova candidata dei Democratici a parte, è con un grande carico di dubbi e incertezze sul sempre più difficile consenso bipartitico americano che il Primo Ministro israeliano abbandona Washington per tornare in un Medio Oriente quanto mai caldo e instabile.

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Lorenzo Graziani

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