Politica brasiliana

Futebol

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  Matteo Gabutti
  27 November 2022
  11 minutes, 52 seconds

La contesa per l’appropriazione politica della maglia e della bandiera verdeoro che ha caratterizzato la storia moderna del Brasile, come raccontato nel precedente articolo, non è limitata a quei due soli simboli nazionali. Un’analoga politicizzazione, infatti, difficilmente avrebbe potuto esimersi dall’abbracciare anche l’elemento che forse meglio rappresenta il país do futebol nell’immaginario collettivo, ovvero proprio lo sport del calcio.

Le recenti elezioni presidenziali, conclusesi con la vittoria al fotofinish del candidato di sinistra Lula contro il Presidente uscente Jair Bolsonaro, non hanno fatto eccezione alla tendenza storica che lega la sfera politica brasiliana alla sfera di esagoni e pentagoni in cuoio. In questo articolo, cercheremo dunque di analizzare il ruolo del mondo del calcio nelle ultime campagne elettorali, evidenziandone le differenze e la continuità rispetto al passato. In particolare, ci concentreremo su quello che con ogni probabilità rappresenta l’esempio più alto di movimento calcistico votatosi ad una causa politica, ovvero la Democracia Corinthiana.



Democracia Corinthiana

Che il calcio, con la sua capacità di toccare le corde del cuore di fiumane di tifosi, possa avere un peso considerevole in politica non è certo una scoperta dell’ultima ora. Senza andare troppo lontano, in Italia un esempio lampante venne fornito dall’uso propagandistico che il Fascismo fece dei Mondiali giocati in casa nel 1934. Similmente, in Brasile, la dittatura militare che aveva preso il potere nel 1964 non si lasciò sfuggire l’occasione dell’ultima Coppa del Mondo Jules Rimet del 1970 per far propria la vittoria della Seleçao, al suo terzo titolo mondiale.

Proprio in quegli anni, tuttavia, il calcio sarebbe diventato lo strumento di opposizione al regime autoritario, almeno da quando il Corinthians diede vita al proprio utopico esperimento. Tutto ebbe inizio nei primi anni ’80, quando il giovane sociologo Adilson Monteiro Alves divenne vicepresidente della storica squadra di San Paolo, in cui militava da alcuni anni una futura leggenda del calcio brasiliano, al secolo Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti, Sócrates. I due, entrambi oppositori della giunta militare, riformarono il club su un modello di autogestione, in cui ogni decisione, dai movimenti di mercato alle percentuali di compensi, veniva presa collettivamente in assemblea.

Tra alti e bassi, le divise bianconere con la controversa scritta “Democracia Corinthiana” iniziarono a farsi largo nel panorama calcistico e politico brasiliano, fungendo da catalizzatore del processo di democratizzazione che avrebbe da lì a poco travolto il Paese. Interrogato su quale ruolo si addicesse meglio al movimento, Walter Casagrande Jr. – uno dei suoi protagonisti, nonché vecchia conoscenza del nostro campionato – non ha avuto dubbi: “La Democrazia Corinthiana era un attaccante! […] Non c’erano compromessi.” In effetti, i giocatori scendevano in campo con slogan in aperta sfida al regime, per esempio a sostegno del movimento Diretas Já per instaurare elezioni presidenziali dirette nel Paese. In tale contesto, il successo sportivo per Sócrates e compagni non era fine a se stesso, ma funzionale al messaggio che portavano, in quanto, nelle parole di Casagrande, “se non avessimo giocato bene e vinto, saremmo stati uccisi dalla dittatura.”

Il declino cominciò nel 1984, quando l’emendamento costituzionale per istituire l’elezione diretta del presidente si arenò nel Parlamento brasiliano. In seguito, le partenze dei leader Sócrates e Casagrande, e il mancato accesso alla presidenza della squadra di Adilson segnarono la fine della Corinthiana, un’utopia divenuta realtà che rappresenta ancora un unicum nella storia del calcio.



Le divise di Bolsonaro

Il confronto tra questa favola del futebol sul-americano e la realtà contemporanea appare impietoso. Ancora Casagrande lamenta il fatto che l’attuale generazione di calciatori brasiliani sia “la più alienata di sempre, perché loro giocano all’estero e quando sono qui in Brasile ignorano la gente, camminando con le loro cuffiette per non sentire nulla.” Eppure, il calcio non è mai uscito dalla politica.

Come afferma Jorge Chaloub, Professore di scienze politiche all’Università statale di Rio de Janeiro, il pallone rappresenta “uno degli elementi chiave dell’identità brasiliana.” E ad approfittarsene è stato Bolsonaro, che ha fatto delle politiche identitarie e nazionaliste il proprio marchio di fabbrica. Sempre secondo il Professore, l’ex Presidente avrebbe indossato 86 divise da calcio diverse nei prime 1300 giorni di mandato, per proiettare un’immagine di sé con cui i cittadini potessero facilmente identificarsi.

Come nel caso della maglia verdeoro della Seleçao, non c’è da stupirsi della crescente insofferenza per una politicizzazione così massiccia del calcio da parte della destra bolsonarista, che ha spinto molti ad invocare il ritorno di uno sport neutrale. È il caso, per esempio, di Tite, allenatore della nazionale carioca, che prima del successo di Lula aveva dichiarato che, in caso di vittoria dei Mondiali in Qatar, non avrebbe visitato il palazzo presidenziale a Brasilia come da tradizione.



Tik Tok e dirette streaming

Tuttavia, checché ne dica Casagrande – tornato a far sentire la propria voce dal 2018 in opposizione a Bolsonaro –, qualche calciatore brasiliano si è esposto politicamente, prendendo una posizione contraria a quella dell’ex leader del Corinthians. In occasione della sua candidatura nel 2018, infatti, Bolsonaro poteva contare su una squadra considerevole di atleti di fede evangelica, che includeva nomi importanti come Ronaldinho, Felipe Melo, Rivaldo, Lucas Moura, Edmundo e Cafu.

Il più eclatante sostenitore del Presidente uscente, tuttavia, è niente di meno che il capitano della Seleçao, nonché numero 10 del Paris Saint-Germain, Neymar Jr. Prima del ballottaggio, infatti, O’Ney aveva partecipato da Parigi ad una live con Bolsonaro in persona, mostrando pieno appoggio a quest’ultimo in quanto rappresentante di valori condivisi dal bomber verdeoro e dalla sua famiglia. In quell’occasione, inoltre, l’attaccante aveva promesso al candidato di destra di dedicargli il primo goal segnato alla Coppa del Mondo in Qatar, dipingendo uno scenario ideale con “Bolsonaro rieletto, Brasile campione e tutti felici.” Un appoggio difficilmente fraintendibile, giustificato sornionamente da Lula con il fatto che Bolsonaro avrebbe condonato alla stella del PSG un importante debito fiscale.

È evidente che un post su Instagram o un balletto su Tik Tok siano più prosaici e meno romantici dell’undici del Corinthians che scende in campo in piena dittatura con lo striscione “Vincere o perdere, ma sempre in Democrazia.” Ciononostante, l’ampiezza del bacino d’utenza di Neymar, che su Instagram può contare più di 180 milioni di followers, fa dell’attaccante un influencer di prima categoria, a cui i social concedono una visibilità ed un’autonomia inimmaginabili nel calcio del passato.

Ieri come oggi, dunque, il futebol rimane intrinsecamente legato al mondo della politica, malgrado la presunta neutralità dello sport. Come la maglia della nazionale e l’amarelo, rimane un simbolo altamente coinvolgente, spesso assurto a reificazione dell’identità di un’intera nazione. Eppure, in quanto simbolo, rimane uno strumento a disposizione di chi voglia e sappia appropriarsene per i propri fini, promuovendo ora la dittatura, ora la democrazia, ora il populismo.


Fonti consultate per il presente articolo

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affaris. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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