Che quello attuale fosse uno dei periodi maggiormente critici del secolo, è ormai evidente. Un crocevia che con ogni probabilità avrà ripercussioni storiche profondissime.
Ed è proprio durante questa fase che l’ascesa di Trump, sembra aver impresso un ulteriore velocizzazione al processo di cambiamento e ai rapporti internazionali, in un lasso di tempo davvero breve, a partire proprio dalla guerra in Ucraina.
La contestuale apertura di negoziati internazionali, sia con la Russia, che con l’Ucraina, che negli ultimi giorni si sono recati in Arabia Saudita, con le rispettive delegazioni, dimostra la volontà ferrea da parte dell’amministrazione Trump di perseguire i propri obiettivi, a discapito anche dei rapporti internazionali e delle partnership storicamente consolidate. Un riferimento quest’ultimo, in particolare all’Unione europea, che mai come in questo momento dal dopoguerra si è trovata distante ed isolata dall’alleato americano.
Posizioni e nuovi assetti che hanno costretto, come è ormai noto, le Istituzioni europee a ripensare velocemente al suo ruolo, partendo proprio dalla difesa comune e dell’appoggio all’Ucraina, conseguentemente alla presa d’atto del progressivo disimpegno americano, se ancora non del tutto effettivo, ma a più riprese minacciato, soprattutto per imprimere una velocizzazione dei negoziati.
Se da un lato una delle risposte a livello comunitario è stata il lancio dell’iniziativa Rearm (diventata successivamente Readiness 2030, dopo qualche probabile errore di carattere comunicativo), per potenziare la difesa dell’Unione, attraverso un ingente piano finanziario, che dovrebbe consentire il potenziamento dell’industria bellica ed il riarmo europeo. Dall’altro, è diventato primario aumentare gli sforzi a sostegno dell’alleato ucraino, in primo luogo fornendo supporto alle spese belliche per evitare che il fronte difensivo crolli.
Uno sforzo che è stato discusso proprio durante l’ultimo Consiglio europeo, dove l’Alto Rappresentate dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Kaja Kallas, una delle figure che più si sono spese dall’inizio del conflitto contro le azioni della Russia.
Il Piano, che già nei giorni precedenti, aveva sollevato alcuni dubbi all’interno delle Cancellerie europee, una volta aperti i lavori è naufragato in brevissimo tempo, all’interno di negoziati non proprio semplici.
Il Piano, che aveva come obiettivo quello di muovere una cifra di circa 40 miliardi, è stato a più riprese osteggiato, a partire proprio dalla struttura, per cui ogni Paese avrebbe concorso, in base al proprio peso economico, utilizzando come parametro il Reddito nazionale lordo. Un’idea criticata, in primo luogo, dai grandi Paesi come Italia e Francia, che avrebbero dovuto sobbarcarsi i maggiori costi dell’iniziativa (dalle prime stime si parlano di un impegno da quasi 5 miliardi per l’Italia)[1].
A questa critica poi se ne sono aggiunte anche altre, come ad esempio quali altri paesi avrebbero concorso al Piano, ed in che modo lo avrebbero fatto (come testimonia l’appoggio di Canada e Gran Bretagna). Ma ancora, in che modo sarebbero stati mobilitati i 18 miliardi di risorse provenienti dai beni russi congelati, citati in chiusura nel documento.
Dubbi e polemiche che hanno definitivamente fatto naufragare l’iniziativa, tanto da far uscire dai radar anche la proposta minima, che prevedeva lo stanziamento di 5 miliardi per le forniture di munizioni all’Ucraina, come richiesto più volte anche dal Presidente Zelensky[2].
Per quanto il vertice abbia dimostrato esiti insufficienti e il piano definitivamente tramontato, come si evince anche dalle conclusioni pubblicate, ci sono ancora prospettive positive che nei prossimi mesi, ben prima del Consiglio di giugno, venga raggiunta una soluzione negoziale, per un intervento sempre di carattere volontario, in aiuto dell’Ucraina.
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L'Autore
Tiziano Sini
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